Bitcoin inquina? Ci è cascato anche il New York Times!
Un'inchiesta del New York Times riaccende la polemica. Il mining Bitcoin sarebbe un disastro per l'ambiente. C'è molto altro che però il grande giornale ignora.
Non è la prima volta che un grande giornale attacca Bitcoin tramite il mining, l’operazione per aggiungere nuovi blocchi alla timechain.
Le miniere di Bitcoin incassano dall’elettricità - divorandola, vendendola e anche spegnendola - e causano un inquinamento enorme. In molti casi, il pubblico ne paga il prezzo.
Si apre così lo speciale che New York Times dedicato al mining Bitcoin, speciale che è stato ripreso anche da testate nazionali, da associazioni di consumatori e, non in ultimo, dall’ampia schiera di detrattori che vorrebbero vedere Bitcoin sparire dal pianeta.
Quanto c’è di vero? Che prezzo paga il pianeta per il mining Bitcoin? È un prezzo giusto?
Di cosa è accusato il mining Bitcoin dal New York Times
Le accuse mosse da New York Times sono in parte antiche - e già lette altrove e su testate altrettanto prestigiose. Altre invece sono nuove e portano dati ricavati da ricerche private (e non consultabili, neanche in termini di metodologia) e altre ancora riguardano un particolare meccanismo utilizzato nel Texas affinché sia garantita energia alla rete nei momenti di picco o in caso di disastri naturali.
Il mining Bitcoin produce una quantità di emissioni fuori controllo
Quanto riportato dai miner è falso
I miner guadagnano non solo dal mining, ma anche da programmi come Demand Response
Il mining Bitcoin fa ricorso per la quasi totalità a combustibili fossili
Un problema di metodologia
Il primo problema con le accuse di New York Times ai miner Bitcoin americani è relativo alla metodologia. Quando si muovono accuse tanto infamanti, il metodo di raccolta dei dati, delle foto e del materiale mostrato dovrebbe essere pubblico e verificabile da chiunque. Proprio come il codice di Bitcoin.
Wood Mackenzie afferma che l’arrivo dei miner in Texas è costato alla popolazione locale aumenti del 5% sulla bolletta energetica
La metodologia utilizzata da Mackenzie, una delle società consultate da New York Times, è però privata, non verificabile da alcuno e sarebbe anche matematicamente non corretta, anche partendo dai soli risultati
Link al tweet originale: https://twitter.com/thetrocro/status/1645853031358156800
Il video effettuato con il drone che mostra aria insalubre e foschia
È il video con il quale si apre lo speciale di NYT. Potrebbe essere stato modificato per offrire un colpo d’occhio che non rispetta la realtà
Link al tweet originale: https://twitter.com/roryhighside/status/1645726015233351680
I miner Bitcoin abusano del programma Demand Response?
Una delle accuse principali del New York Times, oltre a quella delle emissioni fuori controllo, riguarda l’abuso di quello che si chiama programma Demand Response.
È un programma, attivo in Texas, tramite il quale determinate aziende, dietro pagamento, accettano volontariamente di interrompere o ridurre il consumo di energia elettrica ogniqualvolta ce ne sia bisogno.
È un programma al quale aderiscono diversi miner industriali e che non ha nulla di losco o di poco chiaro: il patto è necessario per le reti nazionali affinché non soccombano in momenti di picco elevato o davanti a disastri meteo.
Per il disturbo, alle aziende che aderiscono (e che effettivamente riducono il consumo su richiesta), viene riconosciuto un pagamento sostanzioso.
Non è un abuso
Non si tratta di abuso o di rivendita di energia a prezzi maggiorati 100 volte, come riportato dal New York Times. Si tratta di un accordo al quale tutte le aziende possono aderire, con termini chiari e che esiste per migliorare l’affidabilità della rete elettrica.
Non è un sistema utilizzato solo dai miner Bitcoin
Non sono soltanto i miner Bitcoin ad aderire al programma: ci sono molte aziende di altri settori, per quanto queste siano meno utili per questo tipo di attività. Il mining Bitcoin ha delle caratteristiche peculiari che lo rendono molto più affidabile per questa necessaria operazione.
L’alternativa è meno conveniente per l’ambiente
L’alternativa per garantire stabilità nei momenti di picco o di fronte a emergenze è quella di avere centrali a gas naturale da attivare nel caso di bisogno. Il gas naturale non è a impatto zero, la costruzione di tali centrali richiede investimenti miliardari e tempi lunghi. I programmi Demand Response sono nati proprio per eliminare (o ridurre) il ricorso a questo tipo di soluzione.
Il mining Bitcoin è il candidato perfetto
Anche la soluzione Demand Response non è priva di inconvenienti e incertezze.
La maggioranza delle industrie - escluso il mining Bitcoin - non possono garantire uno stop indefinito alle loro operazioni, mentre il mining può essere spento per un tempo indefinito. L’esempio che hanno portato in molti è quello delle fonderie dove si tratta alluminio: entro qualche ora si devono riattivare le strumentazioni, pena la solidificazione del metallo.
Le industrie non-mining hanno anche problemi a calcolare il loro effettivo impatto sulla rete elettrica - l’energia che consumano costantemente. Il mining Bitcoin di contro ha un quadro molto preciso dei propri consumi.
Il mining Bitcoin inoltre può essere interrotto immediatamente con qualche comando da terminale, al contrario di diverse industrie che hanno bisogno di maggiore preavviso.
Per quanto non esista la soluzione perfetta, il mining Bitcoin dà una grossa mano. E più miner ci saranno, minore dovrà essere l’incentivo economico offerto dagli stati o dalle realtà locali per spingere ad aderire a tali programmi.
Ci sono anche le lobby
I pareri su industrie miliardarie come quella dell’energia sono raramente disinteressati. Dato che si parla di Texas, come fatto notare da Daniel Batten su Twitter è bene ricordare che subito dopo le prime discussioni politiche sulla possibile riduzione dell’accesso dei miner Bitcoin ai programmi Demand Response, è stato riproposto da un’azienda direttamente interessata un investimento in centrali a gas.
Una curiosa coincidenza che ci racconta almeno in parte cosa si muova dietro certe accuse.
Il mining Bitcoin può e deve fare la sua parte
C’è un aspetto collaterale alle questioni sollevate da New York Times, che è quello della (non) comunicazione da parte dei miner Bitcoin per quanto concerne le loro operazioni, gli effetti concreti che hanno sull’ambiente e sulla rete elettrica e sui costi dell’energia per le famiglie. Sia per conto proprio, sia in consorzio, fosse anche provvisorio.
Miner restii a collaborare
Anche quando in ballo c’è la protezione dell’intera industria dall’assalto della politica, è evidente che i miner abbiano scarsa volontà di collaborare. Il Bitcoin Mining Council non ha raccolto, per ora, i frutti di quanto seminato e i report oltre ad essere sparuti, sono anche scarsamente ripresi dalla stampa mainstream.
Serve anche un’altra cifra comunicativa
Il mondo dei bitcoiner frequenta i meandri del web e ama esprimersi attraverso meme, che dietro il divertimento possono anche nascondere dei significati profondi. Tuttavia il problema comunicativo esiste - e se l’obiettivo è quello di convincere persone che non arrivano da questo mondo (quantomeno a lasciarci in pace) si dovrà cercare di utilizzare un linguaggio che gli altri sono in grado di decifrare e capire.
Le risposte a colpi di meme
E di video divertenti ma solo per addetti ai lavori. È stato il caso di un video diffuso in risposta all’articolo di New York Times da parte di Riot, una delle principali società che si occupano di mining.
Il video mostra, con tono scherzoso e irriverente, operazioni di misurazione della CO2 presente in uno dei siti che sono stati analizzati dal giornale statunitense. I risultati, chiaramente, non mostrano alcuna emissione di CO2. Il punto da voler dimostrare, che difficilmente però passerà come messaggio dall’altra parte della barricata.
È divertente, chi è dell’ambiente lo capisce, ma il gioco lascia il tempo che trova. È vero che le mining farm non emettono CO2, ma è altrettanto vero che si fa riferimento, più intelligentemente, alle emissioni causate dalla produzione di energia elettrica per alimentare le farm. E quindi sì, il video è divertente e fa entrare nella discussione un punto importante.
Il punto era stato già citato da New York Times e difficilmente sarà una risposta esaustiva o la base per sviluppare un discorso nell’opinione pubblica che spieghi perché il mining Bitcoin esiste e perché potrebbe essere meno dannoso di quanto raccontano i giornali mainstream.
È una questione (anche) politica
Preoccupati o meno per le sorti dell’ambiente e del pianete che abitiamo, bisogna sottolineare che la questione è politica e che attraversa diverse questioni, purtroppo non immediatamente evidenti.
Cosa si contesta in concreto a Bitcoin
Gli si contesta di consumare energia elettrica che si potrebbe non consumare. Il campo di battaglia è spesso quello dell’utilità contro l’inutilità di Bitcoin. Chi ritiene che sia utile un sistema del genere, crede che abbia diritto a consumare l’energia che preferisce.
Chi invece lo ritiene inutile, al tempo stesso considera il consumo energetico delle mining farm ingiustificato, inutile e dannoso. Se dovessimo fermarci qui, la questione non sarebbe in grado di abbracciare il vero nucleo della questione.
Chi decide quanto si può consumare e perché
Chi sostiene che il mining Bitcoin vada osteggiato se non proibito tout court ritiene al tempo stesso - questo è inevitabile - che debba esserci qualcuno a giudicare l’utilità o meno di qualunque attività umana.
Una sorta di comitato - che sia eletto democraticamente o meno non importa - che attribuisca secondo criteri più o meno chiari chi può accedere al mercato dell’energia e a quali condizioni.
L’idea è pericolosa, centralista e centralizzata e metterebbe a repentaglio la libertà di ogni attività umana. Oggi il mining Bitcoin. Domani cosa? E se il comitato dovesse decidere che la vostra auto è inutile, perché potreste andare a piedi? E se fossero ridotte le TAC alle quali potete sottoporvi perché qualche algoritmo riterrà il consumo energetico eccessivo rispetto al salvarvi la vita?
Sembrano questioni di scuola e forse un tantino esagerate, ma dal momento in cui si accetta l’idea che qualcuno debba decidere chi può utilizzare energia, il limite di tali ingerenze sarà esclusivamente il capriccio di tale comitato.
Decidere a maggioranza non migliora la situazione
Affidare una tale decisione alla maggioranza vuol dire mettere a repentaglio qualunque utilizzo di energia per questioni che interessano gruppi minoritari. Gruppi minoritari che non sono soltanto i bitcoiner, ma anche, dati alla mano, i lettori di libri, di giornali, chi ha computer dotati di schede grafiche potenti e con alti consumi. Si potrà obiettare che tali industrie non consumano troppa energia. Ma chi definisce il troppo? Ancora una volta un capriccio, che per quanto possa essere della maggioranza rimane comunque tale.
Bitcoin è “full electric”
Come le Tesla e come le auto elettriche che ti spingono a acquistare a suon di incentivi. Il punto, che è stata fonte inesauribile di meme negli ultimi giorni, è che Bitcoin non utilizza direttamente carbone, petrolio o gas naturale, ma utilizza energia elettrica. Ed è dunque un problema non di emissioni di Bitcoin, ma di come viene prodotta l’energia stessa.
Una volta partiti da questo punto, che almeno in parte sembrerà un giochino logico buono per le discussioni al bar, il centro del problema diventerà chiaro: se quel che si desidera è avere un Bitcoin più pulito è dalla produzione di energia elettrica pulita che si deve passare.
Non ha senso puntare il dito su Bitcoin
In che modo i consumi di Bitcoin sarebbero diversi da quelli di una lavastoviglie? Perché i piatti puliti senza sforzo sì e un sistema monetario distribuito e resistente alla censura no? Il punto - si dovrebbe cominciare a nutrire un certo sospetto - è che Bitcoin viene ritenuto inutile se non dannoso per almeno una parte della politica e che dunque i suoi consumi elettrici sarebbero doppiamente ingiustificati.
Ci sono altre considerazioni da fare
Non è benaltrismo: nelle sparate politiche spesso travestite da ambientalismo, si riduce ai minimi termini un mercato complesso come quello dell’energia, della sua produzione e del suo utilizzo.
Il primo punto - sul quale avremo modo di tornare in altri numeri - è che avere energia in un punto non vuol dire poterla avere automaticamente in un altro. Vi ricordate dei grandi miner tutti localizzati in Cina prima che Pechino decidesse che non andavano più bene? Non sottraevano energia a nessuno, perché la cercavano a basso costo e perché il grosso dell’energia a basso costo era vicina a centrali idroelettriche che producevano energia dove erano in pochi ad utilizzarla.
Verrebbe da pensare che lo stesso meccanismo possa funzionare anche negli USA, dove tra le altre cose l’attenzione per certi temi ambientali è più alta. Per motivi a noi oscuri invece questo aspetto - dettato dall’economia - non sembra essere preso in considerazione da parte di certi accusatori.
I miner Bitcoin sono agili - e probabilmente fondamentali
Ci sono diverse situazioni - vedi quelle cui risponde il sistema Demand Response - nelle quali avere un’industria in grado si spegnersi in pochi secondi per tutto il tempo necessario è un enorme vantaggio. Si obietta che senza l’utilizzo di energia dei miner Bitcoin non ci sarebbe bisogno di tanta energia. È falso: perché l’energia non utilizzata va in qualche modo stoccata. E non è così semplice come raccontano certi giornali.
I miner Bitcoin pagano l’energia che utilizzano
E non la stanno rubando a nessuno. Pagano ai prezzi di mercato - anche quando stipulano accordi particolari - e la cercano a basso costo. Cercarla a basso costo vuol dire andare a occupare aree dove c’è sovrabbondanza di energia e non dove si entra in competizione con città o paesi vicini.
L’energia elettrica è un costo per i miner
Al contrario di quanto vorrebbe far passare almeno una parte dell’indagine del New York Times, l’energia rimane una voce di costo, quasi l’unica per i miner Bitcoin. Andare a costruire mining farm dove l’energia è scarsa e dunque costosa è un controsenso che farebbe chiudere bottega a queste attività nel giro di poche settimane.
Dal Flare Gas al riscaldamento: il mining Bitcoin può aiutare l’ambiente
Per quanto li descrivano come pirati inquinanti al massimo grado, in realtà tra i bitcoiner vengono studiate (e implementate, cosa importante) soluzioni alternative da integrare con le attività di mining e avere al contempo un effetto benefico sulle emissioni.
Il caso Tresorio
Ne abbiamo parlato sul nostro sito, con un’intervista al CEO. Tresorio è una società francese che tra le altre cose produce boiler per acqua calda che sono abbinati ad un miner Bitcoin. Funzionano on demand e si attivano solo quando c’è bisogno di acqua calda. Si spende meno in energia per avere acqua calda e si recupera parte del calore emesso dalle ASIC utilizzate per fare mining Bitcoin.
Flare Gas
Avete mai visto la fiammella che campeggia su attività estrattive di petrolio? Tecnicamente si chiama flare gas, ed è gas che potrebbe essere bruciato in apposite centrali per ottenere energia - e che invece viene bruciato al termine di una canna, in modo molto poco efficiente.
Il flare gas è poco efficiente, disperde nell’ambiente metano e rilascia anche il cosiddetto black carbon, che avrebbe secondo la Banca Mondiale il secondo peggior effetto sul riscaldamento globale dopo la CO2. Perché tale gas viene utilizzato in questo modo? Perché produrci energia in loco è poco conveniente, dato che nessuno utilizzerebbe tale energia. Bruciarlo in centrali elettriche apposite ridurrebbe di molto i problemi causati da tale gas, anche soltanto per il fatto che tali centrali sono enormemente più efficienti.
Servirebbe un’industria che può scegliere qualunque luogo della terra, a patto che ci sia energia economica. Immaginiamo che te ne sia venuta in mente una in particolare. E sì, ci hanno già pensato ingegneri e imprenditori. Hanno fondato Giga e danno una mano al pianeta (e al bilancio della loro impresa) proprio facendo mining Bitcoin.